dettaglio della locandina del documentario cn una donna che fa la verticale in mezzo a uno spiazzo e sullo sfondo degli alberi
courtesy of Rai
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Lontano da casa

La droga è un fenomeno che riguarda tutt*. Intervista alla regista Maria Tilli

Le scelte narrative sono un aspetto da considerare in qualsiasi tipo di storia, soprattutto quando si parla di argomenti complessi e delicati come quello della droga e delle dipendenze.

Ciò vale, non solo per film e romanzi, ma anche per documentari, che contrariamente ad altre forme narrative, deve avere maggiore attinenza con la realtà, raccontandola attraverso documenti, fotografie, filmati e testimonianze.

In un documentario le scelte narrative sono cruciali: occorre capire e scegliere in modo ancora più mirato e sartoriale le dinamiche su cui focalizzarsi, il punto di vista da adottare, il periodo storico su cui concentrarsi, le vicende da raccontare.

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E ciò vale ancora di più quando si affronta una tematica così complessa come quella della tossicodipendenza.

Per capire meglio quali sono le scelte che portano alla nascita di un documentario su questi temi abbiamo intervistato Maria Tilli, regista di Lontano da casa, documentario prodotto da Simone Isola e Giuseppe Lepore per Bielle Re e Rai Cinema, ambientato nei nostri giorni nella comunità di recupero San Patrignano, un luogo carico di storia e di “responsabilità” che davanti all’esigenza di narrare storie ed esperienze di ragazzi e ragazze si svuota di ogni significato per diventare solo il contenitore dei percorsi di recupero.
Lontano da casa non ha niente a che fare con l’altro famoso documentario uscito su Netflix nel 2020, che ha scatenato l’opinione pubblica. SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, diretto da Cosima Spender, si concentra maggiormente sulla storia e le controversie del centro, nonché sui metodi violenti e la personalità del suo fondatore Vincenzo Muccioli. La serie in cinque episodi racconta, attraverso interviste e immagini di repertorio, racconta l’Italia degli anni Settanta e dei giovani dipendenti da eroina che, respinti dalla società e ignorati dalla politica, vengono accolti nel centro di recupero di Muccioli. Puntata dopo puntata viene definito il profilo del fondatore, dei metodi di recupero poco ortodossi utilizzati in comunità, delle morti e dei processi che seguono e segnano la figura di Muccioli. Non mancano spunti di riflessione, domande di natura etica, ma anche politica. Tutto ruota attorno alla figura di Muccioli, come padre-padrone di una comunità che vive il suo momento iniziale, pionieristico e fatto anche di vuoti normativi.

Lontano da casa, invece, è ambientato nell’attualità e si sofferma su un punto di vista totalmente differenze.

Sicuramente potrebbe essere utile guardare entrambi i filmati anche solo per notare le differenze circa i metodi e le scelte narrative. Uno tra tutti, il periodo storico: se SanPa si concentra tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, Lontano da casa si focalizza sull’attualità, che appare più fluida e complessa di quella di allora. Se in SanPa i tossicodipendenti sono raccontati come persone emarginate dalla società, in Lontano da casa la droga è qualcosa che appare estremamente integrata nella società, che potrebbe capitare a tutti.

Il tema della tossicodipendenza viene trattato in modo onesto e diretto, dando voce alle persone coinvolte. Nessun racconto storico, né testimonianze degli anni passati, luoghi che prendono il sopravvento sulle persone o grandi professionisti che cercano di etichettare persone e spiegare il fenomeno.

una donna castana con una maglia beige sorride e guarda in camera
La regista Maria Tilli

 

Nel documentario di Maria Tilli non ci sono i concetti ma le persone. C’è la realtà, quella che coinvolge ragazze e ragazzi poco più che ventenni. Una realtà che interessa tutti e tutte, nessun* esclus*. Dietro lo schermo, i e le giovani coinvolti prendono parola uno dopo l’altro e si raccontano in modo totalmente genuino, lasciando da parte la paura di essere giudicati per donarsi al pubblico.

Descrivono le loro esperienze, il modo in cui si sono avvicinati alla droga, perché lo hanno fatto ma anche come hanno preso consapevolezza del problema e perché hanno deciso di entrare in una comunità di recupero, che non prova neanche a diventare la protagonista, ma rimane un contenitore di storie, un’occasione di rinascita.

Nel lavoro di Maria Tilli traspare solo la voglia di raccontarsi, trovare un filo conduttore tra tutte le tragiche esperienze di vita, ma anche rinascere e riprendere la propria esistenza dopo il periodo di recupero. I ragazzi e le ragazze vengono da tante zone d’Italia, sono di diversa estrazione, hanno avuto una vita differente l’un dall’altro: tutti e tutte sono comunque approdati alla droga.

Capire come e perché senza giudicare e criminalizzare è l’obiettivo del documentario, una narrazione diretta e asciutta

 

E sono proprio le parole a dominare tutta la narrazione, quelle dei diretti interessati, che descrivono anche le sensazioni che hanno provato quando si sono avvicinati alla droga per la prima volta. Vengono intervistati in diversi spazi della struttura, per sottolineare l’unicità delle loro storie. E ai loro racconti sono alternati dai vecchi filmini dell’infanzia, momenti e istantanee di quando erano piccoli, in vacanza, durante le gite in famiglia, a scuola nelle recite scolastiche. E più si guardano e ascoltano quelle scene, l’autoanalisi dietro ogni intervista, e più si vivono quelle sensazioni e viene da pensare alla propria vita. E quando ci si immedesima nasce un sentimento di umanità e compassione. Allo stesso tempo cadono i giudizi e si rimane lì ad ascoltare.

I racconti sono, in particolare, quelli di Caterina, Daniele e Stefano. Insieme a loro incontriamo anche Martina, Filippo, Nicol e tutto il gruppo di SanPa. Inizialmente era pensato per le sale cinematografiche, ma a causa della pandemia, Lontano da casa è stato inserito nel catalogo RaiPlay, dove è ancora disponibile come Speciale Tg1-Raiuno.

locandina del documentario cn una donna che fa la verticale in mezzo a uno spiazzo e sullo sfondo degli alberi
Locandina del documentario "Lontano da Casa"

 

Maria Tilli è una regista e autrice romana formata al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, con numerosi lavori alle spalle, tra cui la direzione di Senza aggiunta di Conservanti, La gente resta, Sembravano Applausi e tanti altri.

 

Tilli, come è stato raccontare un tema così complesso come la tossicodipendenza?

È stato difficile perché è un tema su cui ci sono molti pregiudizi. Ancora oggi, la tossicodipendenza è vista come una colpa e quindi esternalizzarla è un atto di coraggio, perché dall’altra parte c’è sempre il giudizio e mai la compassione. Il modo giudicante in cui la società guarda i tossici è devastante. Poi è vero che alcune droghe ti fanno cambiare anche a livello caratteriale, ti fanno magari diventare più aggressivo, ma, insomma, c’è sempre una seconda possibilità per tutt*, nessun* deve essere buttato nel cestino e deve avere il diritto di condurre una vita serena e riparare ad eventuali errori, proprio come tutte le persone.

Il racconto si apre proprio con la scena in cui un ragazzo lascia la comunità dopo un lungo periodo e, uno ad uno, abbraccia le altre persone riunite in cerchio per salutarlo. Pian piano dalla narrazione dell’insieme fuoriescono le storie di ogni ragazza e ragazzo.

Quando sono entrata dentro Sanpa ho cercato di raccogliere più testimonianze possibili. Poi ho scelto di raccontare tre storie in particolare: quelle di Stefano, Daniele e Caterina. Ho selezionato proprio loro perché penso possano rappresentare al meglio la vastità e la complessità legata al mondo della droga oggi. Sono tre persone diverse, hanno storie ed esperienze disparate e soprattutto arrivano alla droga in modo completamente differente.

Nel documentario c’è la chiara intenzione di raccontare le persone grazie a interviste e le loro esperienze dirette, ma d’altra parte c’è anche un luogo, San Patrignano, che ha una storia importante, che passa in secondo piano. Con quale obiettivo sei partita?

All’inizio volevo sapere come si viveva dentro San Patrignano, poi mi sono accorta che non era importante il luogo – che poteva essere Sanpa come un’altra comunità – ma le persone che lo abitano, le loro storie. Il primo giorno di visita ho avuto un giramento di testa, sono stata colta da un’energia potentissima appena ho messo piede lì. Dentro la comunità vive un ampio gruppo di ragazzi e ragazze che non possono avere contatti con l’esterno. Per settimane o mesi vivono isolati, quindi quando qualcosa o qualcuno dal mondo esterno entra dentro, che sia il panettiere o una documentarista, sentono l’esigenza di scoprire di più, mostrarsi e raccontarsi.

La scelta di non raccontare storia e caratteristiche di San Patrignano è quindi voluta. Nel documentario il contesto rimane sullo sfondo, l’obiettivo è anche quello di raccontare storie di ragazzi e ragazze tra i venti e i trent’anni, che hanno vissuto la loro adolescenza intorno al 2010.

Non mi interessava particolarmente essere a Sanpa. Non parlo di quel luogo, se non come contenitore o struttura che ospita la comunità. Anche nel titolo del documentario non vi faccio riferimento: si intitola Lontano da Casa proprio perché la comunità si trova lontano dai luoghi dove ragazzi e ragazze sono cresciuti e, allo stesso tempo, diventa per loro una nuova e grande casa in cui ricominciare. Senza contare che oggi Sanpa è molto diversa dagli anni Ottanta, un’epoca per tanti versi più violenta e categorica, dove spesso l’eroina non era capita, non se ne capiva la portata tragica e per curare si ricorreva a metodi controversi e violenti.

Quanto conta il periodo storico in cui è stato girato il documentario?

Ho voluto raccontare il mondo della droga oggi e ciò che ho capito è che l’approccio è molto eclettico. Mentre negli anni Settanta c’era principalmente la questione eroina, vero e proprio simbolo del mondo della droga, oggi l’approccio è complesso ed eterogeneo. I giovani e le giovani sono fluidi anche in questo: è difficile trovare chi si fa solo di una sostanza. È evidente dal racconto di Daniele, che nel documentario descrive tutto ciò che assumeva: erba, cocaina, eroina, ma anche i calmanti. E oggi l’approccio è questo. Senza contare che gli atteggiamenti tossici sono più vicini di quanto si possa pensare, molto più rispetto a trent’anni fa.

Quali sono le principali difficoltà che hai incontrato mentre giravi e preparavi il documentario?

Non giudicare, mai. In quel momento non devi dare un giudizio morale ma l’unico obiettivo è raccontare la verità. Ed è molto difficile perché a volte le cose ti arrivano in faccia in maniera forte, alcuni racconti più di altri, e ciò che provi o senti potrebbe trasparire. Ma non deve succedere.
Occorre anche cercare di mantenere una certa distanza emotiva, perché è difficile non farsi coinvolgere troppo, soprattutto da alcuni racconti più di altri. Per quanto mi riguarda, il racconto di Caterina mi ha colpita profondamente: ascoltare una ragazza così dolce e pura che ti spiega come è arrivata alla droga e i momenti tragici che ha vissuto nonostante la sua giovanissima età è stato davvero molto forte per me.
Ma non bisogna lasciarsi trasportare troppo. Ascoltare e trasmettere i racconti dei ragazzi e delle ragazze nel modo in cui loro li comunicano è importante e perciò non deve trasparire alcun giudizio, perché la droga è qualcosa che può capitare davvero a tutti e a tutte. È più semplice di quanto si possa pensare.

Le tre interviste sono molto diverse. Qual è il filo?

Volevo trasmettere che nella droga non si incappa solo perché non si va d’accordo con la propria madre o si hanno conflitti con i genitori, perché si è esclusi dalla società, si vive in periferia, in una condizione di povertà e non si hanno speranze. Spesso si finisce dentro semplicemente per noia, per curiosità, per voglia di provare qualcosa di nuovo, diverso, elettrizzante, anche divertente. Perciò non bisogna assolutamente demonizzarla senza conoscerla. Io, in generale, cerco sempre di raccontare le persone e non i concetti, ma grazie alle storie si può arrivare a conoscere meglio particolari fenomeni, come quello delle dipendenze.

Quali ripercussioni non solo lavorative ma anche umane ed emozionali ti ha dato lavorare questo documentario?

È stata un’esperienza molto forte da diversi punti di vista. Ciò che mi dispiace molto è non averli potuti più rivedere. Siamo stati autorizzati a entrare in comunità – in modo eccezionale – per girare il documentario, ma poi non abbiamo più potuto comunicare con nessuno e nessuna di loro. Non possiamo interferire con le loro vite, perché comunque loro sono coinvolti in un percorso di recupero, ovvero sono lì per un motivo molto importante e nessuno proveniente dall’esterno può interferire. Purtroppo, quindi, non li ho più sentiti, come è successo, invece, per altri documentari che ho fatto in passato. Per esempio, avevo lavorato anche per il programma 16 anni e incinta e con molte ragazze i rapporti sono continuati anche dopo.

Cosa ha guidato le tue scelte?

Il mio lavoro è molto istintivo, non ho schemi o regole fisse, ed è per questo tutti i documentari che ho fatto sono diversi tra loro. In questo caso ho voluto lavorare in modo lineare e diretto. Inizialmente i racconti erano tanti, ogni persona della comunità ha esperienze molto forti alle spalle. Poi ho deciso di concentrarmi su tre interviste che si intervallano tra loro e che, in qualche modo, riescono ad abbracciare esperienze e vite disparate.

Come è stato accolto dal pubblico?

Ancora oggi qualcuno mi scrive e mi dice che ha visto il documentario, anche persone che non mi conoscono. E questo mi fa molto piacere. Appena è uscito tante famiglie coinvolte mi hanno ringraziato. Penso che sia un documentario che avrà lunga vita.

Esistono altri lavori che ti hanno ispirata?

A me piacciono tanto i documentari, ma sicuramente il mio film del cuore è Amore Tossico (film del 1983 diretto da Claudio Caligari, che racconta l’esperienza con l’eroina dei ragazzi negli anni Ottanta).
Il documentario di Caligari non c’entra nulla col mio, non ci sono delle somiglianze esplicite, ma senza dubbio mi ha ispirata. In particolare, c’è una scena che mi ha aiutata a trattare il discorso, quella finale, quando la ragazza di Cesare sta morendo e le vengono in mente tutti i momenti in cui si sono divertiti quando erano fatti. È una scena poetica e molto vera, che spinge a una riflessione, cioè che la droga è anche divertimento. E la società deve capirlo ed essere capace di offrire alternative. Siamo abituati a pensare che la droga la assume chi non ha ambizioni o speranze, chi vive ai limiti della società. Ma non è così: se la potrebbero fare tutti, anche chi nasce in una famiglia attenta e amorevole. La società, in questo contesto, ha un ruolo cruciale e non si può ignorare. Bisogna sempre scovare la verità, accettarla e raccontarla. Al contrario, la retorica sulla droga, sul disagio non mi piace ma la trovo falsa e finta. In Amore Tossico ho visto la verità e questo mi ha ispirata.

Maria Francesca Marras Pinna
Maria Francesca Marras Pinna
Laureata in letterature straniere e specializzata in editoria. Lavora nel marketing digitale e ha un amore viscerale per la parola scritta. Un giorno ha acquistato Frisson e… dopo un’ora si è proposta alla redazione per offrire il suo contributo.
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