illustrazione di una bussola con i colori della bandiera LGBTQIA+
illustrazione: Francesca Stella Ceccarelli
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Il personale è geografico

Vita da queer e femminista in periferia: la questione territoriale troppo spesso esclusa o sottovalutata

“Mia nonna era femminista?”, si chiede Diana J. Torres in “Fica Potens”. Risposta affermativa, ma senza un solo ricordo che renderebbe l’esperienza della nonna realmente assimilabile a un femminismo consapevole, in rima con elaborazioni concettuali o lotte per i diritti in piazza. Tuttavia è evidentemente femminista dire di “no” a un uomo che la possiede quasi legalmente per trascorrere del tempo con altre donne anziché dedicarsi solo ed esclusivamente alla cura della casa e della famiglia. 

Un passaggio, questo, che risuona anche nella mia esperienza di vita. Da meridionale, da ragazzina di periferia prima e giovane donna di città poi, impegnata  a raccontare a tutte le compagne dei libri che mia nonna non aveva in casa, o del fatto  che un coming out di qualsivoglia natura è impossibile da immaginare del tutto, per me e per molte mie compaesane. E spiegare che lì da dove veniamo noi non esistono spazi di ritrovo per giovani che non siano cattolici, che il circolo arci più vicino è a 10 chilometri e che si sta talmente strett* quando si è così in poch* che fregarsene dell’opinione altrui è veramente un atto sovversivo e una prova di coraggio.

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Il divario tra nord e sud e le distanze tra città e periferia rendono molto diverse le abitudini e le possibilità delle persone queer. Resta quindi  impossibile accostare le diverse esperienze di attivismo: da una parte abbiamo il fermento dal basso che trova terreno fertile, opportunità per fare rete e occasioni d’ascolto. Dall’altra si arriva a subire persino (ancora) violenza istituzionale. Alcune storie sono segnate da un processo di migrazione: la parte vera di liberazione comincia quasi sempre nel momento in cui si abbandona il paesello per raggiungere territori più accoglienti, ricchi di vitalità politica, di spazi di aggregazione ed elaborazione condivisa. 

Quando le pratiche di autocoscienza cominciano a unire le donne negli anni ’60 e ’70 e diventano un laboratorio di scoperta, comincia a emergere l’esistenza di discriminazioni legate al contesto geografico e alla cultura d’appartenenza. Discriminazioni delle quali la teoria e le lotte femministe non si fanno ancora del tutto carico. Fino a quel momento  solo alcuni gruppi di autocoscienza hanno ammesso per esempio donne di estrazioni sociali differenti: operaie, studentesse, militanti, casalinghe e donne provenienti dalle periferie della città. Donne che verosimilmente hanno istanze diverse condizionate dal contesto geografico, dalla cornice famigliare e dal capitale culturale. Cosa avrebbe detto mia nonna se avesse preso parte a un gruppo di autocoscienza? Avrebbe compreso le posizioni di altre donne che già parlavano di libertà sessuale negli stessi anni in cui lei, da un paesino nella provincia di Taranto, faceva qualcosa di femminista solo decidendo di lavorare pur essendo una donna?

Nella storia delle differenze lo squarcio tra il nord e sud segna l’esperienza delle persone e anche l’elaborazione delle politiche, in un divario che va ben oltre “la questione meridionale” e che continua a riprodursi in diversi microcosmi nei quali, se niente è più politico del personale, allora spesso l’esperienza personale combacia con il tipo di periferia da cui veniamo, dalle sue leggi non scritte e dalle sue consuetudini.

In un’ottica di parità e non di uguaglianza, il grande dibattito queer e femminista ha bisogno di fare spazio a molte voci che non possono ancora comparire nelle assemblee nazionali. Ha bisogno di tempo per elaborare una semantica più ampia che tenga insieme anche il personale geografico.

Ci sono basi da elaborare per mantenere in dialogo le nostre esperienze e richieste diverse, dalla fortunata ragazza che a Milano cresce in una famiglia in cui non ha mai avuto bisogno di fare coming out perché sarebbe stato come fermare tutt* durante il pranzo per comunicare “mi piacciono molto i dolci” allo zio che trova offensivo sostituirsi a noi donne quando laviamo i piatti dopo cena.

“Molte delle categorie classiche, del femminismo italiano come dell’operaismo, non funzionano o non funzionano a pieno se non facciamo lo sforzo – necessariamente collettivo – di rinegoziarle nei luoghi e sui territori”, osserva Carla Panico nel suo saggio “Le autonome. Storie di donne del Sud”. “Ciò che dovremmo iniziare a compiere è proprio una ricerca capillare di quelle tracce di scintille di autonomia che da sempre hanno caratterizzato le vite e le lotte delle donne meridionali, e, forse, provare da queste a desumere nuove categorie di analisi che ancora non abbiamo” .

Ancora nel 2012 il Comune di Battipaglia censura un bacio gay su un manifesto contro l’omofobia.  “Scarsi sembrano essere i contatti diretti tra le compagne di Napoli e quelle di altre esperienze del Sud, mentre per lo più ricordano i contatti nazionali con i gruppi omologhi di Milano o Roma – nell’organizzazione di campagne, manifestazioni e assemblee nazionali che per lo più si svolgevano al Nord, favorendo, forse, la relazione tra grandi città metropolitane invece che tra le diverse e mal collegate realtà meridionali”, osservava solo un anno fa Carla Panico.  “Se l’evento lo fai sempre a Milano, io divento un tutt’uno col divano”,  rivendica sui social l’attivista Claudia Fauzia, denunciando come la maggior parte degli eventi femministi si svolgano ancora soprattutto al Nord.

L’esperienza di Claudia Fauzia è interessante perché – con una lente d’ingrandimento che sento di poter definire davvero terrona – fa emergere non solo i buchi, i vuoti organizzativi e l’incomunicabilità tra le culture, ma anche le conclamate ingiustizie che raccontano tutto, ancora oggi, di quel divario mai colmato tra i centri e le province, tra il nord e il sud, tra i territori culturalmente e politicamente fertili e attivi e quelli da cui si emigra per lavorare dove “il lavoro c’è”.

Claudia Fauzia: attivista palermitana, laureata in Economia e specializzata in Studi di Genere, si batte per fare conoscere il “femminismo terrone”, che considera non solo l’essere donna ma anche l’essere una donna del Sud come un fattore importante nella lotta per l’equità. Ha fondato l’associazione La Mala Fimmina che ha l’obbiettivo di creare una forte identità femminista siciliana e di creare iniziative transfemministe meridionali, diventando un punto di riferimento territoriale per la comunità queer e un gruppo di pressione politica per una Sicilia più femminista. 

Le persone del sud sono più povere del 45% rispetto a quelle del Nord. Le differenze economiche reali si portano dietro quelle culturali e sociali che si finisce spesso per guardare con occhi pietistici. E sembrano ancora lontani un sincero scambio di esperienze e la fabbricazione di strumenti immaginati per tutti i tipi di periferia. Se lo sguardo non è pietistico è a volte feticizzante: nelle terre da cui veniamo, ricche di qualche materia prima e affacciate su qualche bellezza, ci sono le tradizioni e le credenze, quelle che rendono macchiettistiche le nostre dolorose esperienze di lotta fatte di ribellioni ad aspettative specifiche, matrimoni precoci o strumentali a coprire lo scandalo di una gravidanza indesiderata, – in famiglie in cui non è concesso parlare d’aborto. Nella più evidente ed esplicita richiesta della società e della famiglia verso di noi lesbiche, bisessuali o gay, che non possiamo pensare di manifestare ed esprimere la nostra queerness, la nostra identità di genere, la nostra eventuale rabbia. 

Se qualcosa sta cambiando, lentamente, è grazie a collettivi piccoli ma pieni di speranza, grazie a persone che vanno in isole felici come la mia Bologna e tornano con buone idee e pratiche. Un cambiamento che non è veloce però, non abbastanza da farci sentire meno in apnea quando, tornando in periferia, ci ricordiamo che nel 2023 forse possiamo amare una persona del nostro stesso sesso ma non possiamo ancora amare più di una persona alla volta. Quando pensiamo che mancano ancora diritti minimi a chi non nasce cisgender e eterosessuale e ricordiamo infine che le opportunità non sono distribuite in maniera omogenea: se ti mancano spazi di confronto e attivismo, spesso è ancora perché sei nat* in un posto sfortunato.

Maria Elena Memmola Tripaldi
Maria Elena Memmola Tripaldi
Scrive da quando ha imparato, ha pubblicato un romanzo psicologico e ideato il podcast “Lettera Femmina” in cui parla di questioni di genere e discriminazione. Lavora in un centro antiviolenza a Bologna, ha pubblicato articoli e racconti su alcune riviste online, cura rubriche motivazionali e non si sazia mai di lettere. Pratica la curiosità e nutre i desideri con devozione, brindando rigorosamente senza sentimenti. Femminista un passetto alla volta, lavora con le parole e la comunicazione per cambiare le cose.
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