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Juju e tratta: il circuito che lega a doppio filo le donne nigeriane

Dalla Nigeria all’Europa, un viaggio attraverso criminalità, credenze e coercizione.
illustrazione di donna grande che tiene legata una sagoma femminile piccola. sono circondate da tante mani
illustrazione: Sarah Aliotta Perna

La storia di chi attraversa il mare è spesso piena di increspature. E l’interpretazione di chi è da questa parte del Mediterraneo è sempre parziale e culturalmente condizionata. Per chi nasce al di qua della frontiera è difficile accorgersi di essere in una terra tutto sommato fortunata, in cui è possibile parlare di autodeterminazione più di quanto non si possa fare in altri paesi. 

Le donne rappresentano una componente essenziale del fenomeno migratorio, con quella che la studiosa Carlotta Malfone definisce femminilizzazione dei flussi: il 52% della popolazione immigrata, di cui il 43% di sole donne nigeriane. L’approccio di genere è quindi indispensabile per riconoscere e interpretare i fattori di spinta che determinano le migrazioni delle donne in Italia, compresi quei progetti migratori autonomi in cui molte persone arrivate qui hanno creduto e su cui hanno scommesso per ricostruire loro stesse e per migliorare le sorti della propria famiglia di appartenenza.

Per capire come mai il fenomeno della tratta nigeriana sia legato a doppio filo alla religione basta osservarne l’influenza nella vita delle donne anche nella loro terra di origine. In Nigeria povertà estrema e ricchezza al limite del lusso convivono. Qui, in ore di sermoni, di canti e di ringraziamenti al Signore, in occasioni come la messa pentecostale, viene ripetuto un messaggio chiaro: se hai ricchezza è merito tuo, se vivi in povertà è una colpa tua. Non hai fatto abbastanza per evitarlo.

La Nigeria ha il prodotto interno lordo più alto tra i paesi del continente africano, ma più di metà della popolazione vive senza elettricità o acqua potabile e senza potersi nemmeno permettere l’ospedale. Se sei tra le persone colpevoli di non avere avuto sufficiente successo, se la tua famiglia e la tua casa versano in condizioni precarie e se pensi che il paese in cui sei nata non ti permetterà mai di soddisfare i tuoi bisogni primari, – allora la promessa di una vita migliore in Europa può suonare come un’occasione.
La maggior parte delle storie delle donne trafficate in Europa comincia nello Stato di Edo, una delle regioni più povere della Nigeria: qui la madame promette loro un lavoro dall’altra parte del Mediterraneo, con cui  riusciranno poi verosimilmente – questa l’illusione – a sostenere la loro famiglia in Africa.

E qui entra in gioco la religione. Le candidate all’esilio vengono prima di tutto sottoposte a un rito nel paese di appartenenza o appena arrivate in Italia. È il cosiddetto juju: una cerimonia in cui il native doctor preleva sangue, pezzi di unghia e peli pubici della giovane donna, mischiandoli con delle erbe che costituiranno un preparato da applicare sulle ferite che le vengono appositamente inferte sul corpo. Attraverso il giuramento che avviene in questa cerimonia la ragazza si impegna a pagare le spese del viaggio per arrivare in Europa: contrae così  un debito che sarà in realtà sempre ben più alto del costo del viaggio. E in Italia scoprirà che dovrà pagare quel debito barattandolo con la propria libertà. Il juju è quindi uno strumento religioso-magico di coercizione: avvia la “schiavitù da debito” e condiziona le donne, incastrandole nel circuito della tratta, convinte che se dovessero rompere il giuramento ne morirebbero, si ammalerebbero gravemente o impazzirebbero. Loro o qualcuno della loro famiglia.

“Una parte del materiale – ‘ebo’ – viene ingerito dalla donna, un’altra parte viene data agli sfruttatori e una terza custodita dal native doctor fin quando la donna non avrà estinto il debito. Il rito poggia il proprio funzionamento su un processo metonimico: agendo sulle sostanze organiche prelevate si intende agire sulla persona stessa”, spiega Consuelo Bianchelli, antropologa e operatrice del settore Oltre la strada  del centro antiviolenza Casa delle donne di Bologna

Leggi l’articolo completo su Frisson​ n. 12

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Picture of Maria Elena Memmola Tripaldi

Maria Elena Memmola Tripaldi

Maria Elena Memmola Tripaldi scrive da quando ha imparato, ha pubblicato un romanzo psicologico e ideato il podcast Lettera Femmina in cui parla di questioni di genere e discriminazione. È operatrice e coordinatrice di un centro antiviolenza a Imola. Ha pubblicato articoli e racconti su alcune riviste online, canta e crede che molte cose siano relazione e quasi tutte politica. Femminista sempre in progress, lavora con le parole e la comunicazione per cambiare le cose.

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