A Roma esiste una strana galleria dove le protagoniste di ogni mostra sono identità e rappresentazione. Si chiama Casa Vuota ed è un esperimento curatoriale definito “singolare” e molto interessante da chi di queste cose se ne intende. Lo spazio espositivo è stato inaugurato a maggio del 2017 al Quadraro, quartiere al confine con via Tuscolana dalla storia stratificata e dal presente sempre più vivace, insignito della Medaglia d’oro al Merito Civile per il rastrellamento nazifascista del 17 aprile 1944: una tragedia di cui porta ancora i segni e che vuole orgogliosamente non dimenticare. Perdersi in questa zona vuol dire attraversare la storia di Roma, con il Parco degli Acquedotti, l’architettura spontanea nata all’inizio del secolo scorso per ospitare le maestranze di Cinecittà, il Mandrione con i suoi fantasmi pasoliniani.
È qui, a via Maia, che quattro anni fa comincia l’avventura di Casa Vuota, uno spazio domestico abitato per quarant’anni da una coppia di artigiani e poi mai ristrutturato. Un piccolo appartamento di una sessantina di metri quadri le cui rifiniture in legno sono state realizzate dallo stesso vecchio inquilino che questo faceva di mestiere. Le macchie di caffè, il cavo del telefono che taglia in diagonale una parete, un ago infilato nella carta da parati dalla vecchia inquilina che faceva la sarta. “La vita che qui si è consumata ha lasciato tracce”, racconta a Frisson Francesco Paolo del Re, co-direttore artistico della galleria insieme a Sabino de Nichilo. “Non abbiamo fatto alcun intervento ma abbiamo deciso che il punto di forza era proprio in questa pelle, in queste cicatrici che hanno una forte portata erotica”. Da allora quattro anni di mostre hanno cambiato ulteriormente le pareti: “E ai chiodi che c’erano prima si sono aggiunti buchi nuovi, cicatrici e tracce”.
Tra gentrificazione e tendenze, il Quadraro è oggi una zona quasi centrale in una città che si estende a macchia d’olio. Ma Casa Vuota si trova comunque in “un posto di periferia rispetto alle rotte consolidate dell’arte romana”, dice ancora Francesco. Non solo: mentre le gallerie “classiche” sono su strada, qui ci sono un cancello e un portone da attraversare, un citofono da suonare, delle indicazioni da seguire – “secondo piano a destra”. “Lo spazio non è neutro e questo per noi è un punto di forza”, racconta ancora il direttore. “Gli e le artist* che espongono qui devono inevitabilmente lavorare all’interno e con la complessità di storia, memorie e fantasmi di questo appartamento”. Qui si sono alternate mostre di artisti e artiste che non avevano mai esposto a Roma, “che sono alla loro prima personale nella Capitale o in assoluto, senza preclusione per età nè linguaggio”. Non esposizioni di singole opere, ma progetti la cui identità nasce “avvolgendo” lo spazio.