La censura ai tempi della Rete

"La preghiera del mattino dell'uomo moderno è la lettura del giornale”, diceva Hegel. Oggi quella preghiera passa piuttosto attraverso i social e i motori di ricerca, con il loro potere di decidere cosa pubblicare e cosa, a volte, far scomparire. Nel nome dei termini di servizio e, forse, di una qualche morale. Le piattaforme - soggetti privati - sono oggi “così grandi e in una situazione di quasi monopolio o oligopolio”, dice Carola Frediani. “È un dato di fatto ed è il problema”. Le nuove frontiere della libertà di espressione alla prova dell’algoritmo.
censura nella rete: donna senza bucca pixelata in bianco e nero
10 Luglio 2021
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Chi ha qualche anno in più non può non ricordarlo, forse con una punta di nostalgia: sembra ieri, e invece sono passati già alcuni decenni da quando Internet, con il suo avvento, si annunciava come la nuova, incontrastata, prima inimmaginabile frontiera delle libertà. L’informazione era sterminata, a portata di tutte e tutti, sulle note di quell’inconfondibile suono che aveva il modem 56k. 

Il web resta ancora oggi uno spazio pubblico senza guardiani all’ingresso. Dove può prendere parola chiunque, soprattutto chi altrove non ne ha. Ma il suo meccanismo pone sfide che non avremmo forse mai immaginato, con quell’infrastruttura “più complessa, più articolata, più frammentata, più conflittuale e assai più pericolosa di quella che abbiamo conosciuto fino a ieri”, per dirla con Mario Del Co, economista e già direttore dell’Agenzia per l’innovazione. 

Filtri e algoritmi                 

“Digito su un motore di ricerca ‘Graal’, trovo 78 siti, solo due sono rigorosamente scientifici. Gli altri sono un sottobosco di occultismo fatto di neotemplari, gente che ha il Graal in tasca e così via”, diceva nel 2000 Umberto Eco a un convegno. “Io ci ho messo mezza giornata a monitorarli tutti e sono in grado, perché è una materia che conosco, di fare una selezione. Ma se la stessa ricerca la fa un ragazzo di 15 anni che cosa succede? A chi crede?”. La Rete è e resta aperta. Impermeabile a tutto, anche – lo sappiamo ormai bene – alle bufale, che di questi tempi preferiamo chiamare fake news. O all’odio e all’incitazione alla violenza. Di certo è anche luogo dove si consumano dei reati. E Umberto Eco è morto prima di vedere l’effetto che fa una pandemia sull’agorà digitale. Internet è “la vita che si organizza in Rete, individui e culture che si aggregano”, diceva il giornalista Vittorio Zambardino nello stesso convegno di 20 anni fa. “E se questo funziona, tra vent’anni sarà uno strumento superato che sarà servito, come il telefono, a rendere l’umanità migliore”. 

Ecco: 20 anni e una pandemia dopo, l’umanità appare tutt’altro che migliore. Mentre il Web è diventato il principale strumento – almeno in un mondo occidentale più o meno ricco – di accesso alle informazioni: gratuito e infinito. “La preghiera del mattino dell’uomo moderno è la lettura del giornale”, diceva Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Più di due secoli dopo, quella preghiera è stata sostituita dal proprio social di riferimento (a ognun* il suo, a seconda dell’età e dell’abitudine). E i problemi non mancano. “Alcuni temono che la rete sia dominata dall’effetto negativo dei social network, che con i loro algoritmi radicalizzano le convinzioni più settarie chiudendo al confronto critico e aperto delle diverse posizioni”, scrive su Agenda Digitale Mario Dal Co. “Altri paventano lo sviluppo del capitalismo della sorveglianza, o del Grande Fratello orwelliano nei paesi autoritari, uno sviluppo che si basa sui dati acquisiti in rete, prevalentemente dai social network, e memorizzati dalle grandi aziende del web, ma anche dai governi e dalle loro agenzie”. Altri ancora, conclude, “credono che la rete sia uno spazio aperto, libero, dove trionfa la democrazia diretta, dove i diritti d’autore non valgono: una rete di nessuno e di tutti”. Chi ha ragione? 

La censura              

“La censura più pericolosa è quella del mercato”, diceva il compianto Stefano Rodotà quando era garante della Privacy. Sul termine stesso oggi “c’è una guerra in corso, e vengono date definizioni diverse”, spiega a Frisson  Carola Frediani, giornalista e scrittrice esperta di cybersecurity. Da un lato ci sono le policy e gli standard della comunità che si danno le piattaforme social: accettando i loro termini di servizio, l’utente dovrà seguire una serie di regole. “Definire questo aspetto ‘censura’ è improprio”, avverte Frediani. Il blocco di contenuti “effettivamente dannosi, che contengono minacce o che sono non idonei a una larga pubblicazione non è censura, ma garanzia di qualità della rete”, conferma Roberto Scano, già presidente IWA e presidente commissione UNI (Ente Italiano di Normazione) e-accessibility. Il limite “dell’incitamento all’odio è un punto fermo”, aggiunge Frediani. “Sensato e giusto”: le piattaforme “rispetto a un blog personale o a un sito hanno un potere di amplificazione dei contenuti che può essere sfruttato per diffondere e rilanciare dei messaggi”. E questo tira in ballo le loro responsabilità.

Il punto di non ritorno     

“C’è un valore nell’Intelligenza Artificiale. Ma va guardata con occhio critico”, avverte Ivana Bartoletti, esperta di privacy, autrice di “An Artificial Revolution: on Power, Politics and AI” e Visiting Policy Fellow all’Università di Oxford, durante l’incontro Women In Journalism Forum AI e Giornalismo di Google News Initiative. Come gestire dunque le informazioni e la loro regolamentazione? “È un tema enorme, perché gli algoritmi possono essere usati non solo in funzione editoriale ma anche manipolativa”. Si parla spesso del rischio per la democrazia, insito anche solo nel semplice fatto che il consumo delle notizie possa essere “tailored”, confezionato intorno a quello che l’algoritmo sa di un/una utente. La risposta quindi “è politica”, dice Bartoletti.

L’inverno che ci siamo lasciati alle spalle ha visto irrompere il nodo assolutamente cruciale della libertà di opinione della leadership politica e del ruolo di Rete e social network. Il pensiero va inevitabilmente a quando le principali piattaforme social hanno bloccato o rimosso gli account del presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump, “reo”, a loro avviso, di avere in qualche modo fomentato i suoi a portare avanti, il 6 gennaio scorso, l’attacco al Congresso degli Stati Uniti mentre era in corso la certificazione della vittoria elettorale del suo avversario, il nuovo presidente Joe Biden. Scene di straordinaria follia. E vittime.

Senza precedenti sono state anche le decisioni prese dalle maggiori piattaforme (non solo Twitter e Facebook, ma anche YouTube, TikTok, Reddit e Twitch), motivate dal fatto che a loro dire Trump avesse violato le linee guida che vietano di condividere contenuti che promuovano violenza e notizie false. “L’incitazione all’assalto a Capitol Hill ha rappresentato il punto di non ritorno”, ragiona Carola Frediani. “E da questo punto di vista ritengo che la decisione di bannare Trump abbia avuto senso: proprio per il potere che un personaggio come lui può avere. La sua forza che non è certamente pari a quella di un singolo cittadino”. 

“Il mio diritto di dire finisce quando, dicendo, metto a repentaglio il diritto degli altri di esistere a prescindere da cosa io pensi di loro”, scriveva allora in un post Facebook Fabio Chiusi. Giornalista e scrittore, si occupa tra l’altro del rapporto tra tecnologia, cultura e società per – tra l’altro – Valigia Blu. “Meglio contare altri morti il 17 gennaio o un profilo Twitter in meno?”. “Molti pensano che i social siano di pubblico dominio, mentre sono e restano dei soggetti privati con delle regole”, dice Scano a Frisson. “Se i gestori di società privata stabiliscono delle regole e ritengono che qualcuno le violi hanno tutto il diritto, anche se a noi non sta bene, per esempio di sospendere l’account”.

Il tema però si pone in ragione dell’importanza crescente che questi strumenti di comunicazione hanno raggiunto nel tempo. E quanto accaduto durante la pandemia, con le conferenze stampa (citofonare all’ex premier Giuseppe Conte e al suo portavoce Rocco Casalino) e gli annunci urbi et orbi affidati a Facebook e dallo stesso social rimandati anche in tv, lo conferma bene. “Oggi i social possono essere visti come realtà private sì, ma di servizio pubblico”, spiega Scano, sviluppatore esperto in normative e accessibilità. 

E sottile è la linea di demarcazione tra il diritto all’informazione “e il diritto a oscurare l’informazione che qualcuno ritiene non idonea – perché c’è sempre una valutazione”, prosegue.

E poi cosa rientra nella definizione di incitamento all’odio e cosa no? Chi lo decide e su quali parametri? Le piattaforme – soggetti privati – sono oggi “così grandi e in una situazione di quasi monopolio o oligopolio”, dice Carola Frediani. E si pone il tema del loro eventuale eccesso di potere. Essere sospesi o bannati si traduce nell’essere o non essere: ecco, questo è il problema. 

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Immagine di Angela Albanese Gennaro

Angela Albanese Gennaro

È la direttrice responsabile di Frisson. Giornalista freelance, videomaker per Ansa dove si occupa di cronaca, tematiche di genere, temi sociali, immigrazione. È autrice con Cecilia Ferrara di Perdersi in Europa senza famiglia (Altreconomia, 2023) e cura su Radio Bullets, webradio specializzata in Esteri, un podcast sulle notizie di genere dal mondo. Già videomaker per Il Fatto Quotidiano e photo editor per Associated Press Italia, tra le testate con cui ha collaborato ci sono tra l’altro Repubblica.it, Il Venerdì, Current TV, Il Reportage, la Zdf.

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