Monica J. Romano, formatrice sulle tematiche di diversity & inclusion, docente seminariale, attivista, divulgatrice e autrice di libri riguardanti le questioni del mondo LGBTQIA+, è la prima persona transgender a ricoprire una carica pubblica nella storia di Milano, dove è stata nominata consigliera comunale con quasi mille preferenze e poi eletta vicepresidente della Commissione Pari Opportunità e Diritti Civili. L’abbiamo raggiunta telefonicamente per parlare dello stato dell’arte delle tematiche femministe in Italia.
___STEADY_PAYWALL___
Si ritiene femminista?
Sì, da sempre, perché le problematiche e gli ostacoli comuni e personali derivano dal patriarcato.
Cosa vuol dire essere “femminista” in politica?
Per me significa privilegiare relazioni con altre donne che fanno politica, e non è una scelta scontata. Considero importante identificare l’autorità e l’autorevolezza delle donne: quest’ultima, in particolare, non ci viene riconosciuta.
Cerco di costruire reti e partnership fra donne, che – per esempio – nel consiglio comunale di Milano sono una minoranza.
La sorellanza ha dei vincoli e non basta essere donne per costruire un rapporto solidale. Per esempio nel programma di Fratelli d’Italia per le ultime elezioni non si parla mai di donne se non come figure subalterne: mogli e madri. Questa visione sussidiaria non mi spinge a costruire un dialogo con le donne che sostengono quella visione.
Il centro sinistra, quello italiano come quello europeo, dovrebbe chiedersi come mai le uniche donne che ricoprono ruoli apicali in politica vengono da centro-destra e destra. Nei programmi di centro-sinistra si parla di parità ma nei fatti questo accade meno.
Come si pone il Partito democratico rispetto alle questioni riguardanti le persone transgender?
Con la segreteria di Enrico Letta c’è stato un cambiamento nel partito rispetto a questi temi: si tiene la barra dritta sui diritti civili. Inoltre a me il partito ha dato carta bianca per la creazione del registro di genere a Milano, iniziativa seguita a Lecce e Livorno e in discussione a Bologna e Roma. Mi pare che il Pd milanese sia più progressista di altre realtà territoriali che sembrano più scettiche.

Di chi sono le responsabilità di questa situazione politica, secondo lei?
La risposta facile è che molte responsabilità siano del centro-destra, che alle precedenti elezioni del 2018 ha ottenuto numeri importanti (e che ora ha vinto la tornata elettorale del 25 settembre), ostacolando diritti civili e uguaglianza di genere. Oltre a questo abbiamo una legge elettorale – il cosiddetto Rosatellum – che non funziona. I sistemi elettorali degli ultimi 30 anni, secondo i quali non si possono dare le preferenze, comportano delle limitazioni enormi.
Veda anche il ddl Zan: la società civile era favorevole, specialmente molte persone sotto i 25 anni, come anche molte di quelle diventate maggiorenni nel frattempo, ma gli equilibri della società civile faticano ad arrivare in parlamento, perché c’è ancora troppo potere nelle segreterie di partito. Inoltre vanno messi in discussione i diritti economici di alcune categorie professionali.
Si sente ottimista o pessimista a riguardo rispetto al ruolo del femminismo nella politica italiana?
Sono ottimista. Fino a qualche anno fa è stato dormiente, poi col #metoo e il successo dei social media c’è stato un risveglio generalizzato che ha portato in auge certe istanze. Sento che soprattutto le giovani donne vogliono fare e stanno facendo la differenza. Sono militanti e stanno sviluppando uno spirito critico. Questo fermento dovrebbe entrare nelle aule parlamentari.
Che opinione ha delle ricorrenti operazioni di pink, rainbow e green-washing?
Molte realtà fanno solamente un’operazione di maquillage: lavorano sulla comunicazione e la pubblicità ma non creano dei reali ambienti safe all’interno delle proprie aziende. Sono critica nei loro confronti e non voglio collaborare né come attivista né a livello istituzionale, però non getterei il bambino con l’acqua sporca. Esistono infatti realtà aziendali che portano avanti discorsi interni rispetto all’inclusività, all’avanzamento di carriera delle donne, ecc. Si tratta di un fenomeno che esiste e che come attiviste dovremmo governare, ma viviamo in un sistema capitalista e non possiamo fare finta che le imprese non abbiano un peso nell’economia del gioco.