Parlare di identità non binaria in Italia significa spesso partire da zero, dover spiegare, giustificare, educare. Significa farlo in un contesto che ancora oggi non riconosce pienamente l’esistenza, i bisogni, i corpi di chi vive fuori dal binarismo di genere.
In questo vuoto si inserisce Rivoluzione non binaria (Le plurali) di Lou Ms.Femme, uscito in libreria lo scorso aprile. Una voce necessaria, che intreccia esperienza personale e visione collettiva.
Lo racconta a Frisson l’autorə, che intreccia vissuto personale e riflessione politica per rivendicare un linguaggio e degli spazi non binari, riappropiandosi del diritto di raccontare la cultura enby fuori dello sguardo cisgender.
Il tuo saggio si presenta come una “guida” alla cultura non binaria. A chi hai voluto rivolgerti nello scriverlo e quali sono stati i tuoi obiettivi?
Uno dei motivi che mi ha spinto a scrivere questo libro, oltre a quello che gentilmente hai sottolineato, è che ero stancə di aspettare. Mi attivo da circa 5 anni, un periodo relativamente breve, ma in cui ho sentito forte il bisogno che anche in Italia – come già accadeva in Inghilterra, Stati Uniti, Spagna e Francia, per esempio – ci fosse una base di letteratura che andasse oltre il binarismo. Volevo che si iniziasse a decostruire quel bias cognitivo collettivo che ci portiamo dietro. Ero stancə di leggere libri di persone della comunità, che però provengono da contesti molto diversi dal nostro.
Durante i primi anni del mio lavoro di divulgazione e nei percorsi di sensibilizzazione, molte persone mi chiedevano come avessi capito tutte queste cose, cosa potessero leggere e dove potessero informarsi. Mi trovavo spesso a consigliare testi in lingua straniera e in molti casi questo creava frustrazione. Alcune persone erano comunque contente di avere delle risorse, ma altre si lamentavano della mancanza di testi in italiano.
Quindi ho pensato Rivoluzione non binaria come un libro plurale fin da subito, perché basarsi solo sulla mia esperienza sarebbe stato limitante. Volevo che fosse un testo con diverse voci, ma soprattutto volevo tenere presente il contesto. In Italia la maggior parte delle persone non sa nulla di noi, non c’è ancora abbastanza rappresentanza. Per questo ho cercato di renderlo il più accessibile possibile, un testo “antiaccademico”, che tuttɜ potessero capire.
Se le persone sanno di cosa si parla quando si tratta di “non binarismo”, allora è più facile che nascano processi creativi che cambino anche gli spazi.
Hai parlato dell’importanza della contestualizzazione: in cosa trovi diversa la situazione italiano da quella del resto del mondo?
Negli Stati Uniti, per esempio, esiste un linguaggio diverso, in continua evoluzione. Vera Gheno lo definisce giustamente “linguaggio ampio” e non “inclusivo”: non si tratta di includersi in una norma, ma di abbatterla. Questo approccio permette di immaginare dinamiche politiche che per noi sembrano quasi fantascientifiche.
Prima della seconda amministrazione Trump c’era un movimento che stava iniziando a dare spazio alle politiche DEI (Diversity, Equity, Inclusion) e a immaginare comunità più ampie e accoglienti, anche se con molte sfumature e contraddizioni.
Il tuo è il secondo libro in Italia scritto da una persona non binaria, il primo è Gender Is Over di Isa Borrelli. Come ci si sente a rompere questo silenzio editoriale e a farlo con una voce non cis?
Come dicevo ero davvero stancə di questa situazione. Sono statə molto felice di confrontarmi con Isa Borrelli nei mesi precedenti alla pubblicazione di Gender Is Over. La cosa che mi ha entusiasmato di più è che i nostri sono i primi due titoli in cui non si parla semplicemente di non binarismo. Di varianza di genere se n’è parlato negli anni, specialmente di recente, ma si trattava per lo più di manuali accademici scritti da persone cisgender e rivolti a un pubblico specifico, già formato. E non basta dire “l’importante è parlarne”, perché non teniamo conto dell’influenza prepotente del cis gaze.
Dal tuo libro emerge come buona parte della nostra cultura sia binaria: le istituzioni, il potere sui corpi, gli spazi. In che modo possiamo ripensare gli spazi, fisici o digitali, in un’ottica maggiormente enby?
È un problema che ho affrontato anche nel libro, inserendo dei toolkit con suggerimenti pratici proprio su come trasformare gli spazi.
Non si tratta di distruggere gli spazi esistenti, così come nell’approccio all’abilismo non ci si limita a mettere una rampa per le persone con mobilità ridotta. Il punto è chiedersi per ogni spazio: “Per chi è accessibile?”. Nella maggior parte dei casi, è pensato per uomini bianchi, cisgender e abili.
Tutte le altre soggettività, incluse le donne o le persone non binarie, spesso non vengono considerate. Ma dobbiamo anche sforzarci di riconoscere che queste persone possono convivere con delle disabilità – magari cognitive o con riduzione della mobilità – e che devono comunque avere il diritto di accedere a ogni spazio.
Non è un caso se associo la disabilità alle persone non binarie: non solo perché siamo patologizzatɜ, nonostante la comunità scientifica abbia superato questa visione obsoleta e offensiva, ma perché veniamo viste come soggettività “altre”, non previste. Non siamo considerate, proprio come spesso accade alle persone disabili, ed è un problema enorme.
Pensiamo ai bagni. È una questione che riguarda tuttɜ ed è un momento in cui una persona è più vulnerabile. Come sono pensati di solito? Maschili, femminili e se va bene c’è anche quello per disabili, nonostante i bagni genderless siano sempre esistiti.
Hai affrontato il tema del femminismo, parlando di come spesso il movimento non sia sufficientemente aperto ad accogliere le esperienze non binarie. Spesso proprio per la reticenza delle persone trans binarie. Qual è lo stato dell’arte secondo te e cosa può fare di più il movimento?
Le persone trans, gli studi queer e gli studi trans hanno un grande debito con il femminismo, e non lo dico solo io. Molte persone della comunità transgender hanno capito – grazie all’esempio del femminismo – che servono pratiche e consapevolezza, che non bisogna vergognarsi e che bisogna lottare per i propri diritti. La comunità trans è sempre esistita, ma credo che con l’aiuto del femminismo abbia sviluppato una coscienza maggiore, soprattutto durante quella che chiamano erroneamente “seconda ondata” e con i moti di Stonewall.
Purtroppo tanti nomi importanti del femminismo radicale non hanno ragionato in termini di intersezionalità. Un nome fra tutti è quello di Gloria Steinem, che in passato ha sostenuto una teoria piramidale per cui prima venivano le donne e poi il resto.
Con lo sviluppo degli studi queer e con l’aumento di soggettività trans che si espongono, scrivono e si politicizzano, una parte di questo pseudo-femminismo non ha fatto un passo avanti.
Continua a ragionare in termini di sesso biologico, che non è la stessa cosa del genere, ma solo una parte dell’identità sessuale. Molte di queste donne hanno paura di perdere una sorta di primato o privilegio, senza rendersi conto che questo non giustifica l’odio, il sarcasmo e il sostegno politico (e i finanziamenti) a movimenti che si dicono gender critical, ma che di critico non hanno nulla. Piuttosto stanno solo producendo molti danni.
Parlando del movimento italiano, c’è ancora difficoltà a considerare le lotte trans come centrali quanto le discriminazioni verso la comunità LGBTQIAPK+. Si banalizzano questioni importanti, come la sentenza della Corte Suprema del Regno Unito, riducendola a una questione che riguarderà solo i bagni pubblici. In realtà, quello che abbiamo davanti è il primo passo verso una segregazione di genere.
Nel rapporto fra le persone non binarie e il movimento femminista avviene ancora un’assimilazione al pensiero binario. Veniamo considerate una sorta di appendice delle soggettività trans. Quando si parla di politica, mi sorprende come coloro che sbandierano l’inclusione tendano a dare per scontato il binarismo con cui vengono pensate le proposte. Le persone non binarie vengono spesso incluse nei programmi, ma senza che il binarismo venga messo in discussione. Privandole di fatto di uno spazio politico proprio.
Esistono esempi positivi, in Italia o sulla scena mondiale, di politiche o iniziative che stanno effettivamente migliorando le condizioni delle persone non binarie? Ci sono contesti in cui queste soggettività stanno trovando maggiore spazio e rappresentanza?
In Svezia si stanno sperimentando soluzioni linguistiche più inclusive, come l’uso di pronomi neutri, e anche in Francia ci sono tentativi di riformare il linguaggio per renderlo meno binario.
In Italia si parla dello schwa, che moltɜ cercano di ridurre a una polemica sterile, ma che in realtà sta entrando lentamente nel linguaggio comune. Lo vediamo usato da intellettuali e testate giornalistiche, e già questo è un passo importante.
Sul piano istituzionale, l’Unione Europea sta discutendo la possibilità di introdurre la “X” su documenti e passaporti: un riconoscimento formale delle identità non binarie che però richiederà ancora molto tempo per essere pienamente implementato.
Parliamo di piccoli passi, ma la storia ce lo insegna: i cambiamenti sono irreversibili, possono solo essere rallentati, non fermati.
Durante alcune trasferte di lavoro al Parlamento Europeo di Bruxelles ho scoperto con piacere che esistono protocolli specifici per le persone gender variant: si tratta di procedure pensate per evitare il misgendering correlato a documenti non ancora rettificati, come nel mio caso. Il personale non era adeguatamente informato e l’applicazione non è stato immediata, ma sapere che in Europa esistono politiche che ci comprendono è stato fondamentale. D’altronde anche la comunità scientifica ha riconosciuto da tempo che la varianza di genere è semplicemente una varianza dell’identità umana.
Negli Stati Uniti, prima dell’amministrazione Trump era possibile ottenere documenti con una “X” sul campo relativo al genere, ma questa possibilità è stata poi limitata, con conseguenze tragiche per molte persone. È impossibile dimenticare la storia di Elisa Rae Shupe, la prima persona non binaria a ottenere il cambio di genere sui documenti, che si è tolta la vita pochi giorni dopo l’insediamento di Trump, lasciando una lettera piena di rabbia e frustrazione.
In Messico esistono da secoli soggettività gender variant come lɜ Muxe, parte della comunità Two Spirits, che sono sopravvissute alla colonizzazione e oggi sono parte attiva della vita politica. A differenza del nostro contesto, fortemente influenzati dal cattolicesimo, queste identità sono riconosciute come persone sagge e connesse agli spiriti. Inoltre hanno un ampio riconoscimento anche nella cultura “popolare”, arrivando a essere menzionate anche su riviste commerciali come Vogue.
Molto spesso nel libro si fa riferimento a quanto una mancata educazione sessuale e affettiva sia un danno per tuttɜ, tanto più per una persona non binaria che non ha neppure letteratura di riferimento. Quanto pesa questa negazione?
Partiamo dal presupposto che negare l’educazione sessuo-affettiva è una violazione dei diritti umani, e non solo per le persone non binarie, ma per tutte: cisgender, transgender, intersex. Tutte.
Negare questo tipo di educazione, e ancor peggio lasciare la decisione in mano esclusivamente ai genitori — come sembra profilarsi nel DDL da poco annunciato — significa non rispettare il diritto all’istruzione di persone giovani, spesso minorenni. La gravità di questo tema credo sia ancora largamente sottovalutata.
Parafrasando Michela Murgia, mi sembra che in Italia non si provi davvero amore per le persone più piccole: se le amassimo davvero, vorremmo per loro un’educazione sessuale e affettiva adeguata. E no, non si tratta di “insegnare la penetrazione ai bambini di tre anni” come si è sentito dire più volte in questi anni.
Non c’è contezza — spesso da parte di genitori spaventati — del fatto che l’educazione sessuale e affettiva è graduale. Inizia nella scuola primaria e si adatta alla crescita della persona, rispettando il percorso, l’età, lo sviluppo emotivo.
Negarla ha conseguenze gravi: genera disagio, alimenta il bullismo, aumenta i casi di depressione, i disturbi alimentari, l’ansia e l’angoscia. Conseguenze che, in alcuni casi estremi, portano alla morte. Le persone in Italia si tolgono la vita perché non riescono a capire chi sono, come vivere, come parlarne in famiglia. Famiglie dove magari si lotta per decidere cosa lə figliə debba o non debba sapere, senza strumenti adeguati.
Non voglio dire che tutti i genitori siano ignoranti, ma che non hanno la formazione di un educatorə, di unə psicologə, di un sessuologə, di un endocrinologə. Di chi si occupa, professionalmente, di educazione sessuale e affettiva.
C’è poi una campagna odiosa, con messaggi pubblici anche illegali che accusano attivistə di entrare nelle scuole per “insegnare a cambiare sesso”. È un messaggio fuorviante. E tra l’altro, chi lo dice parte dal presupposto che chi fa attivismo sia ignorante. Non è così: ci sono attivistɜ che studiano da vent’anni gli argomenti che portano nelle scuole e nelle università, per offrire strumenti alle nuove generazioni e non far ripetere gli stessi errori del passato.
Io sono divulgatorə, consulente e scrittorə, chi mi invita a parlare nelle scuole o nelle università lo fa con un interesse reale. Chi ha paura spesso è ignorante, o in malafede: sa perfettamente quanto questa educazione sia utile, ma non vuole rinunciare a un ruolo di controllo. Vuole continuare a decidere tutto per lɜ figliɜ, anche contro la loro libertà.
Associazioni europee e internazionali come ILGA, ma anche importanti accademicɜ come Fau Rosati si stanno occupando di raccogliere dati preziosi sul disagio vissuto dalle persone non binarie e trans, proprio a causa di questo contesto. Tenendo presente anche quanto afferma la femminista e attivista dei dati Donata Columbro, ovvero che l’assenza di dati è essa stessa un dato.
C’è molto da fare e nel frattempo la comunità non binaria sta portando avanti progetti e attività molto importanti. Li conoscerete molto presto.