Se il nostro linguaggio e le nostre rappresentazioni avessero già strumenti post-patriarcali, come verrebbe raccontata la storia di una donna che ha subito violenza? Che sentenze emetterebbero i tribunali che dovrebbero difenderle? Le questioni di genere sarebbero ancora delle “questioni”?
Il discorso sulla violenza sommersa nella narrazione dei media su femminicidi e temi di genere è oramai sempre più sostenuto da strutture che ne vorrebbero minimizzare i danni e regolamenti che ne vorrebbero prevenire le derive: per leggere la base comune delle lotte contro questa rappresentazione imperante basta riferirsi alla Convenzione di Istanbul. Bisognerebbe, dunque, pensare al fenomeno della violenza contro le donne come qualcosa che ha radici culturali basate su rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi e come un problema di carattere strutturale, in quanto basato sul genere e su meccanismi sociali attraverso cui le donne sono costrette in una posizione di subalternità rispetto agli uomini.
Del resto è proprio la Convenzione di Istanbul a parlare, all’articolo 17, di rappresentazioni nei media e nella narrazione pubblica che tengano conto della disparità di potere e privilegi tra generi: “le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità.”