C’è Ishtar, dea dell’amore e dell’erotismo nella cultura mesopotamica. C’è Afrodite, certamente celebre, direttamente dal mondo greco classico. C’è Freya, nella mitologia scandinava, e c’è anche l’egizio Bes. Le divinità che presiedono all’attività sessuale esistono da sempre. E non a caso, il tema generalmente correlato a queste figure è proprio quello della fecondità, umana e non solo.
Per decenni, la comunità scientifica ha dibattuto a proposito dei presunti rituali religiosi a sfondo sessuale presenti nelle società antiche. Nei secoli emerge il potere straordinario della sessualità, in grado di mettere in moto dinamiche sociali di vastissima portata. Seppur in misura differente, tutte le religioni tentano di governare questo aspetto imprescindibile della natura umana stabilendo, di volta in volta, il punto di equilibrio tra eccesso e carenza, tra disordine e controllo, tra indecenza e moralità. Secondo molti studiosi e studiose, la cosiddetta “prostituzione sacra”, praticata nei territori del Vicino Oriente Antico e della Grecia arcaica, prevedeva la possibilità di ottenere prestazioni sessuali, eseguite nei templi, a fronte di un’offerta in denaro.
A seconda del contesto, queste usanze potevano assumere scopi diversi: favorire la fertilità, allontanare siccità e carestie, ottenere protezione divina, scongiurare malanni e disgrazie. Studi più recenti di stampo femminista – primo fra tutti quello della storica americana Stephanie Budin – sostengono che, in realtà, quello della prostituzione sacra sia un “mito storiografico”, ovvero un’interpretazione errata delle fonti determinata dall’approccio maschilista e patriarcale che per decenni ha influenzato le discipline storiche e archeologiche.
Il Kamasutra
La questione è decisamente complessa ma resta il fatto che qualsiasi sistema religioso, sia esso mono o politeistico, prescrive, più o meno rigidamente, determinati comportamenti in ambito sessuale.
Nell’immaginario collettivo occidentale, il culto più favorevole alle pratiche erotiche è probabilmente quello induista. La presenza nella letteratura classica hindu di un testo come il Kamasutra (che significa letteralmente “trattato sul desiderio sessuale”) di Vatsyayana viene spesso interpretata come la prova di una mentalità religiosa aperta, orientata positivamente al sesso e al piacere fisico. Il che non è del tutto errato ma per comprendere appieno il senso di quest’opera occorre tenere presente il contesto storico e culturale in cui è stata prodotta. La società indiana del III secolo si caratterizzava non solo per la forte impronta patriarcale ma anche – e forse soprattutto – per il rigido sistema delle caste.
Se da un lato è indubbio che, secondo l’induismo, il desiderio sessuale non va affatto contenuto ma, al contrario, merita di essere pienamente soddisfatto, tale soddisfazione non può che avvenire all’interno del vincolo coniugale. In una società in cui i matrimoni erano – e in parte sono ancora – combinati dalle famiglie, il Kamasutra si configura come un vero e proprio manuale per la classe aristocratica indiana che ha lo scopo di creare e consolidare il legame tra gli sposi.
I suggerimenti a sfondo erotico sono, infatti, solo una piccola parte dell’opera che dedica, invece, ampio spazio ai ruoli di genere all’interno del matrimonio, all’adulterio (ovviamente solo maschile), alla poligamia e alla gestione della casa e delle relazioni parentali. Anche in questo caso, dunque, la religione definisce i confini di ciò che è lecito o ammissibile nella sfera della sessualità che è però concepita come fondamentale a prescindere dalla procreazione.