Eleonora Stolfi si definisce unә cantautrice synth retrowave non-binary con una predilezione per le etichette. Basta fare un giro nella bio del suo sito per rendersene conto. Ha sempre voluto celebrare questa dualità nella sua arte e nella quotidianità. Nonostante si trovi a proprio agio con le definizioni, almeno quelle che sceglie per sé, racconta di quanto le stiano stretti certi limiti, in particolare quelli imposti dalla discografia commerciale, per questa ragione sceglie di fluire e muoversi sinuosamente fra i generi musicali e non, a 360°.
Lo scorso 24 gennaio è uscito il suo nuovo singolo Acrobati, col quale aggiunge un ulteriore tassello al suo personale puzzle musicale. Abbiamo colto l’occasione per chiacchierare della sua produzione e dei temi che lә suggestionano, senza dimenticare il Festival di Sanremo.
Com’è nato e come hai realizzato Acrobati?
Acrobati racconta un fatto realmente accaduto che mi ha ispirato a realizzare il brano. La storia di Acrobati si è sviluppata in una vibe dagli scenari rétro dove l* due protagonist* sono un po’ démodé e passeggiano nei luoghi della canzone, Milano, la provincia e Londra, in questo loro essere romantic*, un po’ alla vecchia maniera, se mi passi il termine. Tutto questo però avviene nel presente dove le dinamiche sono più veloci, dove ci si conosce sulle dating app e più spesso che in passato si finisce per volere stare insieme abitando in due paesi diversi.
Fluidità e genere sono concetti a te cari: come mai? Da cosa scaturisce l’interesse per queste tematiche?
Il mio interesse è prima di tutto personale, sono una persona non binaria. Prima ancora di poter codificare la mia sensazione di dualità con il termine “non-binary”, mi sarei definit* una persona legata alla comunità queer, in quanto lesbica. Credo quindi che il mio interesse per questi concetti sarebbe comunque esistito perché la mia partecipazione alle tematiche queer è sempre esistita.
L’interrogarmi sul perché in me ho sempre avvertito una fluidità va indietro nel tempo. Sin da piccol* la percezione di me era duale e difficile da collocare. Sono sempre stat* in mezzo e la mia fisicità univoca non mi è mai bastata, a volte è perfino limitante e motivo di disforia. Non si tratta solo di quelli che esternamente possono essere percepiti come picchi di manierismo più stereotipati come femminili o maschili, ma si tratta più profondamente di non trovare sempre quello che mi sento davanti allo specchio. Quando termini come “non-binary” non erano ancora così diffusi, associavo questo oscillare al background familiare, alla mia sessualità, e orientavo la mia ricerca di identità verso aspettative sociali o stereotipi che non mi rappresentavano ma che hanno comunque influenzato la lettura di me.
Quanto c’entra la fluidità col tuo essere italo-britannica e quanto ha influenzato e influenza la tua formazione e produzione musicale?
La mia fluidità parte da prima che io decidessi di trasferirmi all’estero, ma personalmente credo che la possibilità di vedermi in un altro contesto culturale abbia favorito l’esigenza di capire chi fossi. Vivo anche in una dimensione ottimale perché questo percorso di conoscenza possa accadere in tranquillità.
Il termine non-binary ha facilitato la comunicazione della mia identità usando solo due parole, consentendomi di capire che non ero l’unic* a sentirmi come ti dicevo prima e che c’era una comunità là fuori che stava nel mezzo.
Il mio essere italo-britannic* ha influenzato il mio approccio alla musica e il rapporto con il pubblico, soprattutto durante i live. Nei miei anni nel Regno Unito, andando a gigs (esibizioni, NdR) altrui e osservando, ho realizzato che il live è un’opportunità per l’onestà e il dialogo, in cui, attraverso l’interazione e la chiacchiera col pubblico, si ricrea il salotto – mi piace definirlo così. Nella maggior parte dei casi il palco non è infatti l’elemento che eleva l’artista, ma è l’elemento che determina che qualcosa sta accadendo e che qualcuno ha preso parola. Ho quindi perso quella sgradevolezza a cui ero abituat*, senza la competizione e ostentazione dei palchi della provincia da cui vengo. Questo mi ha permesso di rilassarmi e raccontarmi. La sonorità invece è tornata ancora di più alle radici. L’altra sera ascoltavo La musica italiana di Giorgio Poi e Calcutta che dice “dalla stanza accanto le canzoni sembrano meglio” facendo riferimento a quanto si apprezzi di più il paese di origine quando si è lontani. A me questa cosa è successa, ho riscoperto ancora di più la cultura italiana, dalla musica, al cinema, all’arte in generale e questo mi ha permesso di mischiare l* me italian* con l* me britannic*. Sento che in questa modalità artistica, sono finalmente inter*.
Sia musicalmente che esteticamente riprendi suoni e atmosfere degli anni ’80: cosa ti porta a definirti una cantautrice synth retrowave?
Sono malinconic* e impregnat* di anni ’80 perché, quando cerco una dimensione per scrivere, vado in quella infantile, gli anni ’80 appunto. È il mio terreno di partenza, dove mi riconosco e dove trovo ispirazione. Mi piacciono i colori forti e solidi, i suoni analogici, sintetici e caldi allo stesso tempo, le spalline, i film dai finali con la morale. Insomma, tutto ciò che si può definire gioco in senso di game, se vogliamo usare un termine comune di quegli anni. Questo è l’approccio che uso nella scrittura della parte musicale, insieme al produttore.
Quando si tratta di scrivere le parole, la dimensione è cantautorale perché sono tutt’altro che legger*, in fondo.
Inoltre credo che la definizione di synth retrowave venga dal fatto che durante la mia carriera io abbia sperimentato vari generi musicali. Capisco le esigenze di mercato e il motivo per cui, nella maggior parte dei casi, gli artisti restino legati a un genere, ma il fatto di essere indipendente mi dà la possibilità di trasformarmi e produrre ciò che sento in una fase della mia vita e cambiare genere quando entro in una fase diversa. Ora sono synth retrowave. Synthwave e basta non avrebbe sottolineato il fatto che attingo da sonorità rétro.
Secondo te, oggi, quanto la musica riesce a raccontare la contemporaneità?
Tanto. Mi viene in mente la scena indie del momento in Italia che è davvero stimolante a livello di lyrics. I testi hanno un linguaggio scarno, diretto, che ha assottigliato la distanza tra la dimensione canzone e la dimensione realtà. Mi piacerebbe vedere più unicità e spericolatezza nel raccontare questa contemporaneità. Ho come l’impressione che ci siano tante timbriche vocali che raccontino storie diverse e poi rinuncino a questa diversità nella pronuncia, dizione e sonorità dei brani per compiacere un trend.
Così mi sono chiest* perché l’idea di trasformare una svastica in girandola potesse essere inopportuna per una canzone, quando pensavo fosse ovvio che le svastiche sui muri non dovrebbero esserci in quanto simbolo di brutture umane e storiche. Dove stava per loro il tabù?
La 75° edizione del Festival di Sanremo si è appena conclusa: ti piacerebbe partecipare prima o poi e ci hai mai provato?
Ci ho provato nel 2021 e mi hanno detto che ero fuori età. Mi hanno fatto presente che c’era un concorso per “quelli come me” chiamato Sanremo Senior. Quando lo racconto in UK esclamano: “So rude!”.
Non voglio essere polemic*, ma spero che la mia posizione sul fatto che all’arte viene messa una scadenza sia chiara.
Partecipare a Sanremo Senior è stata un’esperienza che mi ha lasciato molto perché sono arrivat* al primo posto col brano Ruggine e quello per me è stato un passaggio che ha chiuso un cerchio e ne ha aperto un altro. È stato anche un momento motivazionale che mi ha permesso di continuare a scrivere in italiano e iniziare a fare show con brani in italiano anche a Londra. Ammetto che, fino ad allora, è stato come se pensassi che un testo incomprensibile da tutti non funzionasse e invece ho riscontrato tanta curiosità.
Negli ultimi anni al Festival di Sanremo sono state portate diverse questioni importanti dal greenwashing al genocidio in Palestina. Ritieni che siano gesti che vengono colti e accolti dal pubblico?
Penso che siano gesti dovuti, innanzitutto. L’arte ha il dovere di scombinare, smuovere, raccogliere consenso e dissenso, veicolare messaggi. Penso che in generale questi gesti vengano colti perché le polemiche che scatenano mi portano a pensare così. Non so quanto vengano però accolti alla fine, forse non abbastanza vista la situazione e direzione politica attuale.
Di recente ho partecipato alle selezioni per un concorso in cui, in sede di provino, mi è stato chiesto se avessi potuto cantare un altro brano perché nel pezzo eseguito c’era la parola “svastica” considerata da loro politica. Il brano era Aquiloni che recita: “cosa c’è che ti rende bambina come le girandole che disegni sui muri al posto di svastiche nere”.
Così mi sono chiest* perché l’idea di trasformare una svastica in girandola potesse essere inopportuna (cito) per una canzone, quando pensavo fosse ovvio che le svastiche sui muri non dovrebbero esserci in quanto simbolo di brutture umane e storiche. Dove stava per loro il tabù?
Mi sento di aggiungere che la gente è pronta perché voglio pensare che se da domani la metropolitana fosse tappezzata di messaggi educativi, orientati all’inclusione, al rispetto per l’ambiente, alla solidarietà e a tutti quei valori che favorirebbero il convivere in maniera costruttiva, piano piano si virerebbe in quella direzione. Le radici britanniche mi hanno permesso di vivere questa esperienza e funziona. Qui ho visto l’imbarazzo di chi la fa sporca, all’inizio è stato strano, quasi come essere nell’upside-down!
È un certo modo di fare politica che trae vantaggio dalla disinformazione e dalla censura di tematiche che sensibilizzerebbero in maniera “scomoda” la gente. Sono convint* di questo.