“Nessuna di noi può parlare davvero. Nessuna di noi può denunciare. Oggi sono una donna libera, ma comunque il ricatto resta. Non lavorerei più. E sarei odiata dall’intero sistema”. Elisabetta ha 39 anni e due figlie. Elisabetta non è il suo vero nome, ma è il nome che sceglie per condividere la sua storia con Frisson. Una “piccola storia ignobile” che di piccolo non ha nulla, e che racconta quello che succede almeno una volta nella vita e in “carriera” – le virgolette troppo spesso sono d’obbligo – a qualunque giornalista, in Italia e non solo. Donna, naturalmente.
Elisabetta ha un passato da giornalista di lungo corso in televisione. Comincia da giovane, giovanissima. E fin da subito, fin dalla scuola di giornalismo, capisce come stanno le cose. “Una ragazza percepisce il machismo all’interno del mestiere dal primo momento”, racconta davanti a una tazza di caffè. Lo chiama “mestiere”, il giornalismo, non professione, perché è profondamente convinta che il giornalismo “si impari sul campo”.
“Ti mandano sul posto e devi correre”, racconta a Frisson. “A me è capitato di diventare madre presto, ero molto giovane: per poter andare in trasferta ho dovuto rinunciare alle ore di allattamento. Anche dal punto di vista del trattamento contrattuale chi è donna viene un po’ maltrattata e messa all’angolo. Viene messa al suo posto, e il messaggio è sempre lo stesso: se vuole lavorare, queste sono le regole”.