“Sei mesi dopo”, cortometraggio realizzato da Chiara Sfregola, è stata una delle 26 produzioni indipendenti selezionate dalla direzione del Some Prefer Cake 2024, il festival per la promozione e la tutela dei diritti delle persone e della comunità LGBTQIA+ a Bologna.
È la storia di una ragazza, Marta: la sua esperienza privata è l’occasione per riflettere sul tema del consenso – e su come sia culturalmente (non) percepito.
La pellicola offre una rappresentazione della violenza sessuale che si lascia finalmente alle spalle lo stereotipo dell’aggressore sconosciuto e racconta quello che i centri antiviolenza dicono da anni: le violenze avvengono soprattutto all’interno di relazioni affettive e sono agite da partner, amici, ex compagni o, comunque, persone sconosciute eventualmente frequentate in modi e ambienti che consideriamo sicuri.
Chiara Sfregola è una scrittrice e sceneggiatrice.
Frisson Magazine l’ha incontrata tra le performance e le proposte del Some Prefer Cake di Bologna.
Chiara Sfregola, il corto portato qui a Bologna parla di consenso: un concetto su cui appare ancora necessario lavorare nella società. È così?
Credo che il consenso sia proprio il centro di tutto, quando si parla di incontri sessuali. L’espressione del consenso deve essere continuativa, fino alla fine, e questo spesso è il quid attorno al quale si annodano tutti i processi per violenza sessuale. In questo cortometraggio, che prova a essere quasi un contro processo, la protagonista racconta di avere detto no più volte: non solo non ha espresso il proprio consenso, ma l’ha esplicitamente negato.
Troppo spesso uomini, in particolare etero cis, si nascondono dietro al dito del famoso “no” delle donne che in realtà vorrebbe dire sì. È un insegnamento culturale, gli uomini vengono allenati a interpretare il “no” come una risposta non sufficiente. Volevo che fosse molto chiaro il contrario. È vittimizzazione secondaria: la violenza pur avendo detto “no” e l’obbligo di spiegare, ripetere, giurare che il no era veramente un no. Per chi conosce certe dinamiche è pleonastico. Non è così, evidentemente, per tanti uomini.
Il corto lascia aperta una domanda: cosa vuol dire auto denunciarsi? Cosa dovrebbe fare un uomo che, messo di fronte alla propria responsabilità e al proprio privilegio, vuole cambiare e addirittura modificare anche la cultura che lo ha portato lì?
Prima di tutto, da un punto di vista legale, non è possibile auto denunciarsi per violenza sessuale. Non si procede d’ufficio ma per querela di parte. In una scena – che non ho mantenuto nel montaggio definitivo del corto – la protagonista, Marta, dice: ‘Il consenso ce lo chiedono dopo’. È necessario esprimere, in quanto parte lesa, il consenso a sporgere denuncia.
Un tempo si diceva che l’assassino ha le chiavi di casa: anche il violentatore spesso ce l’ha. O quanto meno ha l’indirizzo. Un uomo, più che autodenunciarsi, può per esempio confrontarsi con chi, per vocazione o professione, potrebbe aiutarlo a fare un percorso. E con chi viene condannato per violenza sessuale non mi limiterei solo alla pena carceraria: imporrei un percorso di matrice femminista, per capire di cosa parliamo quando parliamo di violenza sessuale.
C’è un problema di violenza istituzionale e vittimizzazione secondaria, ma anche una sollecitazione al racconto. Cosa è importante, da un punto di vista politico?
Non faccio un invito a non denunciare, assolutamente. Racconto di una persona che sceglie di non denunciare perché pensa che sia una perdita di tempo e soldi, perché sarebbe il classico caso della parola dell’una contro l’altro. C’è poi un problema di vittimizzazione secondaria. Nei processi per violenza sessuale è necessario ripercorrere quanto accaduto, raccontare nel corso delle indagini, raccontare all’autorità giudiziaria, alla polizia, alle legali… Rivivere insomma il trauma più e più volte.
Marta per sei mesi non dà neppure un nome a quanto accaduto. Non vuole ammetterlo. Nel film non c’è mai la parola stupro o violenza perché lei per prima non vuole dare un nome all’accaduto. Nè, forse, realizzare quello che è successo. Un pensiero negativo che lei cerca di scacciare per sei mesi: quello che fino a poco fa era anche il termine limite per poter denunciare una violenza sessuale. Alla fine riesce a dare un nome a quello che è successo, lo ripercorre insieme all’uomo autore della violenza, e trova finalmente la forza di parlarne con la persona per lei più importante, la sua ragazza. Eliminando il non detto, i grandi silenzi, malumori, bugie, omissioni. E dando forse inizio a una fase più sincera della relazione.